Viaggio alle radici del cibo 3: il mais (parte I)
Pranzo con la cooperativa Paslumetik ad Amatenango (Chiapas, Messico)
Terza settimana del nostro F-log, il Food blog alla scoperta delle radici del cibo. Ancora una volta parliamo di una pianta fra le più importanti a livello globale non solo per l’alimentazione umana, ma anche per quella degli animali da allevamento e la produzione di biocarburanti a base di etanolo: il mais, detto anche granoturco.
La parola mais deriva dal termine mahís con cui i Taino, gli abitanti delle Antille, chiamavano la pianta del mais: Zea mays. La parola granoturco sembra invece legata ad una generica identificazione di tutto ciò che è strano o esotico con il termine “turco”.
Infatti, l’invenzione del mais la dobbiamo ai popoli indigeni che vivano in Messico fra i 12 e i 9,000 anni fa: le prime pannocchie erano lunghe appena 2 centimetri e mezzo e ne cresceva solamente una per pianta. Non è ancora chiaro come il processo di addomesticazione e miglioramento genetico sia avvenuto[1].
Si sa che il mais è una pianta che abbiamo importato dal centro America, ma forse non tutti sanno che l’abbiamo importata “male”, ovvero senza imparare dalle popolazioni originarie un procedimento che avrebbe evitato a milioni di europei di soffrire di pellagra nei secoli scorsi. La pellagra è infatti una malattia generata dalla mancanza di vitamina PP (detta anche vitamina B3 o niacina) che colpisce popolazioni che adottano una dieta principalmente basata sul mais e povera di altre fonti di vitamina PP e dell’aminoacido triptofano. In realtà, il mais possiede queste sostanze, anche se in piccole quantità, ma noi, che non siamo ruminanti, non possiamo assorbirle mangiando il mais al naturale.
Per ovviare a questo problema basta sottoporre il cereale ad un trattamento con sostanze alcaline, come la calce, detto nixtamalizzazione, per rendere queste vitamine assimilabili dal corpo umano. Questo processo l’avevano già scoperto le popolazioni indigene ben prima dell’arrivo dei colonizzatori, che però non hanno avuto la volontà e l’umiltà di apprenderlo. L’arroganza dei coloni costò cara a milioni di persone che soffrirono di pellagra nei secoli scorsi quando sarebbe semplicemente bastato imparare da chi il mais lo mangiava da migliaia di anni.
A sottolineare questo legame fra il Messico e il mais, basta notare come la seconda parte della parola nixtamalizzazione, deriva dalla lingua nahuatl. “Tamalli” significa infatti “pasta di mais” ed è la stessa parola che dà nome ad uno dei cibi messicani più famosi: i tamales (singolare tamal) involtini preparati tradizionalmente con un impasto a base di mais ripieno di carne, verdure, frutta o altri ingredienti. I tamales vengono mangiati tutto l’anno, ma in questo periodo sono una delle tante pietanze che milioni di famiglie messicane hanno consumato durante il dia de los muertos (giorno dei morti). Questa ricorrenza è molto sentita in Messico e viene celebrata in maniera davvero articolata con un rituale che, oltre ad una visita ai propri cari al cimitero, prevede l’allestimento di altari (el altar o la ofrenda) in casa con le immagini dei propri antenati (ma anche personaggi famosi defunti a cui si è particolarmente affezionati) ai quali si offrono cibo, bevande, acqua, candele, sale, fiori e anche vestiti. Pur cadendo nello stesso periodo della festa cristiana dei morti e di Halloween, questa celebrazione è molto diversa da entrambe. Il periodo di avvicinamento al dia de los muertos viene vissuto con allegria, con celebrazioni in cui si indossano travestimenti da scheletri colorati, si balla e si sfila celebrando la vita, di cui la morte è un passaggio gioioso che non va temuto, ma accettato. C’è persino chi si accampa in cimitero per trascorrere la notte accanto ai propri morti, chi prepara picnic, chi accompagna i festeggiamenti con la musica. Una festa tanto peculiare da essere stata dichiarata patrimonio dell’ UNESCO.
Visto che al momento non si può visitare il Messico, potete vivere il giorno dei morti in salsa messicana preparando dei deliziosi tamales, sfornando del delizioso pane dei morti, o cucinando della dolcissima zucca sciroppata condita con formaggio e peperoncini jalapeños.
Se invece preferite il divano e la TV, vi raccomandiamo “Coco”, un cartone molto musicale che racconta esattamente questa tradizione messicana in maniera dolce e spensierata.
[continua la settimana prossima con la seconda parte…]
[1] Per approfondire leggete: https://it.qaz.wiki/wiki/Maize#:~:text=La%20grotta%20di%20Guil%C3%A1%20Naquitz,(un%20antenato%20del%20mais).